Per gentile concessione del Museo Civico del Risorgimento di Modena |
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Pietro Celestino Giannone (1791-1872) fu un poeta e patriota modenese; iscritto alla Massoneria, alla Carboneria e poi alla Giovine Italia, amico e collaboratore di Giuseppe Mazzini, convinto repubblicano, passò buona parte della sua vita in esilio a Londra e Parigi, e da questa esperienza trasse l'ispirazione per la sua opera più nota L'esule. Dopo un breve soggiorno a Modena nel 1848, rientrò definitivamente in Italia nel 1861 stabilendosi a Firenze insieme alla vedova Cassarini sua convivente.
In questi ultimi anni passava molto del suo tempo a scrivere un poema cifrato con strani segni; ad amici e conoscenti disse che si trattava di un'opera dedicata alla storia sotterranea di Modena.
Dopo la sua morte nel 1872 il suo amico Giuseppe Silingardi, insegnante di storia al liceo Muratori di Modena, riuscì a recuperare le carte del poeta e tra queste quei fogli di vario formato pieni di strani simboli; li riordinò, numerò e rilegò in un fascicolo dalla copertina celeste; visibili qui accanto anche le prime pagine dei canti identificati pag. 1 (canto III), pag. 50 (canto IV), con testo decrittato, pag. 61 (canto V) e pag. 70 (canto VI). Alla sua morte, falliti tutti i tentativi di trovare la chiave del cifrato, lasciò il cifrato assieme alle altre carte al Comune di Modena che le conserva tuttora nell'archivio del Civico Museo del Risorgimento. [fondo autografi, G. 37 d 1 (3474)]
Nei decenni seguenti il manoscritto cifrato fu pressoché dimenticato fino a quando risvegliò l'interesse del professor Alfonso Morselli, studioso di letteratura e di storia di Modena e Carpi, che nel 1961 pubblicò un articolo intitolato “Pagine mute del poeta Pietro Giannone”. Morselli scrive che diversi valenti enigmisti avevano inutilmente cercato di forzare il documento; convinto che il poema contenesse importanti informazioni sulla storia di Modena e della Carboneria dopo aver descritto il manoscritto e la sua storia conclude con l'auspicio che qualcuno riesca finalmente a trovare la chiave cosa che “renderebbe un non piccolo servigio alla storia; ma non ci sarebbe da meravigliarsi se, poco o molto, ci guadagnasse anche la poesia.”
Un altro mezzo secolo passò senza che il misterioso poema venisse decrittato; alla fine del mistero venne a conoscenza il prof. Consolato (Tito) Pellegrino, già docente di Matematiche complementari all'Università di Modena e Reggio Emilia.
E nel novembre 2014 fu proprio Tito, che conoscevo da molti anni, a dirmi di questo poema cifrato e a chiedermi se me la sentivo di tentare l'impresa; per questo mi inviò un PDF con l'articolo di Morselli.
Leggendo l'articolo ed esaminando le pagine cifrate che apparivano nell'articolo, superato il senso di disorientamento di fronte a quel guazzabuglio di versi scritti con simboli di fantasia, riconobbi molti elementi che lasciavano pensare che l'impresa non fosse impossibile: si vedevano spazi e punteggiatura in chiaro e si riconoscevano le rime di un poema in ottave; risposi a Tito che avevo bisogno di copie di migliore qualità delle pagine del poema e che comunque mi sarei cimentato nell'impresa solo dopo Natale quando avrei avuto il tempo libero necessario per affrontare l'impresa.
Poco prima di Natale, il 21 dicembre, Tito mi spedì le immagini di tutte le pagine del fascicolo cifrato, appena ricevute dal Museo del Risorgimento di Modena, e dopo il 27 cominciai l'attacco vero e proprio al poema; le difficoltà erano notevoli, un manoscritto non è facile da analizzare con il computer e anche la semplice realizzazione di statistiche del testo cifrato si scontrava con la difficoltà di leggere e distinguere i vari segni cifrati. Nel frattempo Tito realizzava un'ampia analisi statistica sul testo de L'esule (composto da 6108 versi) che si presumeva avere caratteristiche simili a quelle del poema cifrato. L'analisi statistica comparata permise di individuare quasi subito il simbolo ~ ondina come cifra della lettera E, la più comune; permise inoltre di ipotizzare due o tre simboli ma senza certezza. Troppo poco ancora per poter parlare di sfondamento del codice.
Appariva comunque chiaro che si trattava di un codice misto monoalfabetico e per digrammi e trigrammi e probabilmente con un piccolo repertorio; molti indizi lasciavano pensare che numeri e lettere latine fossero segni monografici, mentre i segni di fantasia dovevano essere digrafici, trigrafici o di intere parole. Prendendo ispirazione anche dalla decrittazione dei crittogrammi di Conegliano, iniziai allora un attacco mirato al testo; lo sfondamento ci fu nel pomeriggio del 7 gennaio quando aprii una prima breccia nel testo cifrato, breccia che allargai velocemente nei giorni successivi fino a recuperare completamente o quasi il codice usato da Giannone. Nei mesi successivi l'intero poema fu decrittato, anche se l'ultimo canto "Lucrezia" è incompiuto e molto lacunoso.
Fin dai primi versi decrittati apparve chiaro che il poema era di natura ben diversa da quanto immaginato da Silingardi e Morselli: poesia erotica con linguaggio molto esplicito! Lo stile ricorda più i Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino che il Decameron di Boccaccio. Il quarto canto è ambientato nella Roma di Pio IX ma l'argomento è sempre “lussurioso”; l'ultimo canto, il sesto, è intitolato “Lucrezia” e dedicato agli amori incentuosi dei Borgia. Pietro Giannone aveva lasciato credere si trattasse di un'opera di contenuto storico, probabilmente a bella posta per sviare ogni sospetto sul vero contenuto dei versi che stava scrivendo. In una certa misura Pietro Giannone si era fatto beffe di tutti!
Alla fine, di fronte al testo che veniva fuori, io e Tito ci siamo posti alcune domande su questo poema: perché non l’aveva pubblicato? O perché non l’aveva bruciato, come pure aveva detto a qualche amico? E soprattutto, sarebbe stato contento di questa decrittazione o avrebbe preferito che le sue pagine rimanessero mute per sempre? Tutti questi interrogativi rimarranno senza risposta. Noi preferiamo pensare che in fondo non gli sarebbe dispiaciuto che il suo nome e la sua opera segreta riemergessero dopo tanto tempo, opera che aveva riempito il vuoto dei suoi ultimi anni, forse i più tristi. Quelli in cui malato e provato, dopo aver trascorso gran parte della sua vita in esilio, dopo essersi battuto per un’Italia libera, indipendente, repubblicana, si ritrovava a vivere, come esule in patria, sotto una monarchia e in una città che non era la sua.